Un robot per madre

Pubblichiamo la recensione del film I Am Mother che apparirà sul numero di Settembre del mensile Eco di San Gabriele, nella rubrica Il mondo che verrà, di Marco Staffolani.

Torniamo a parlare di robot. E non solo sull’impatto che la loro diffusione avrà sul nostro modo di lavorare o su come essi ci aiuteranno nel nostro apprendimento scolastico e culturale in genere, fino ad accompagnarci nella nostra vecchiaia. Ma su un versante ancora più intimo che è quello della generazione della vita.

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Impossibile non interrogarsi su questo a fronte di nuova fantascienza che tocca il delicato tasto della generazione della vita in provetta. Il film I Am Mother spinge la questione all’estremo.

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In un asettico laboratorio, array di minuscoli dischi che contengono embrioni umani congelati vengono fatti crescere come bambini grazie ad una mamma robot. Mani meccaniche cullano nuove creature che non si ciberanno del latte dei seni materni, ma riceveranno un perfetto mix di latte liofilizzato. Una nuova generazione di umani che cresce in questo futuro post-apocalittico, in cui il robot selezionerà soltanto quelle creature che rispetteranno parametri di perfezione piuttosto che dare spazio a incerte emozioni che non dicono l’oggettività della difficoltà dell’esistenza.

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Il film è dominato per quasi tutta la sua durata da questo inedito rapporto madre robot e figlia umana. Lo sviluppo del legame pur essendo inquietante fa pensare. La mamma robot non provvede solo il cibo e la formazione culturale della figlia umana (con stressanti test a cadenza programmata), ma stringe con lei anche un rapporto affettivo che, seppur non può esprimersi nelle forme classiche “della carne” vista la meccanica che impedisce i baci e riduce il calore dell’abbraccio, riesce comunque ad esprimersi in momenti di gioco e di riflessione sull’esistenza stessa.

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Il mondo fuori dal laboratorio è oramai senza vita per colpa della mancanza di rettitudine dei vecchi uomini. Spetta adesso al robot madre, programmato ed equipaggiato col compito di riportare la vita sul pianeta, garantire che la nuova creazione sia ben “coltivata” e addestrata senza difetti, senza il pericolo di nuove distruzioni di massa.

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La figlia degli uomini (forse a questo punto più figlia dei robot) è la nuova Eva non più lasciata all’evoluzione della semplice natura, ma resa perfetta nell’educazione inflessibile che solo la macchina può dare.

Ma se l’umano non risponderà alle aspettative, o meglio alle specifiche, programmate dalla macchina? Che cosa deriverà da una nostra insufficienza nei confronti delle macchine che noi stesso abbiamo posto in essere? E se un umano non ancora “addestrato”, rimasuglio della vecchia generazione scampato all’apocalisse entrasse in questo etereo rapporto uomo macchina?

Significativo il fatto che non viene mai detto il nome della figlia, o forse più semplicemente nessun robot può dare il nome all’umano, o ancora peggio, non c’è più bisogno di un nome?

La riflessione sull’immaginario cinematografico non può che riportarci nel nostro mondo reale, a considerare più profondamente la peculiarità del nostro essere umani, mix unico di ragione e d’emozione, di alti e duraturi ideali che non possono che reggersi e svilupparsi sopra relazioni umane carnali (apparentemente fragili), fatte di carezze, sorrisi e teneri affetti. Sottolineare le criticità delle nostre emozioni ed irrazionalità che nella nostra libertà possono arrivare a distruggere gli altri e noi stessi è un monito significativo di quanta “energia” abbiamo. Ma non ricordarci che tale “energia” è la stessa che costruisce popoli e porta avanti il mondo, nel rischio della imprevedibilità della vita, sarebbe un peccato di omissione.

Marco Staffolani

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