Antropo-logos. La ragione al crocevia di intelligenza artificiale, razionalità scientifica, pensiero filosofico e teologia cristiana. (Libro di Giovanni Amendola, prefazione di G. Lorizio)

Pubblichiamo la prefazione e l’indice del nuovo libro di Giovanni Amendola, Antropo-logos. Studium, Roma 2021.

Dalla prefazione. In occasione della ricorrenza bicentenaria dalla morte di Napoleone Bonaparte (5 maggio 1821-2021) mi sono imbattuto in una memoria del generale/imperatore, datata 17 agosto 1816, ovviamente dall’isola di S. Elena: «Io ho avuto bisogno di credere, ho creduto, ma la mia fede si è trovata inceppata, incerta, da quando ho avuto coscienza delle cose, da quando ho iniziato a ragionare […]. Forse crederò di nuovo ciecamente, Dio lo voglia! Ma non vi oppongo alcuna resistenza, non chiedo di meglio; e concepisco che ciò debba essere una grande e vera felicità» (testo riportato dallo storico Vittorio Criscuolo). E mi sono chiesto: ma di quale “ragione” si tratta qui? Di fronte a quale razionalità la fede si inceppa? Ovviamente di fronte alla “ragione moderna”, che assume, come ben nota il giovane matematico e teologo Giovanni Amendola, autore di questo libro, frutto della sua dissertazione dottorale [alla pontificia Università Lateranense il 16 febbraio 2021 -ndR], la forma del “pensiero calcolante” di heideggeriana memoria.

Il percorso della ragione, che persegue la propria autonomia nel senso di una radicale emancipazione dalla fede cristiana in Occidente, viene disegnato dalla Fides et ratio, che individua proprio nella modernità filosofica il luogo in cui si consuma il dramma della separazione tra fede e ragione, pur non nascondendosi che i prodromi di tale dramma erano già posti nell’ultima scolastica, a partire dalla crisi nominalistica….

Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell’idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l’umanità (n. 46).

La riflessione relativa alla ragione teoretica viene condotta nella modernità contestualmente alla necessità di elaborare una visione metodica del conoscere, tesa ad indagare e teorizzare piuttosto il come conoscere che la cosa stessa. E in tal senso la modernità filosofica muove i suoi primi passi istruendo una riflessione speculativa che riguarda proprio il metodo ed individuando, per esempio nelle Regulae ad directionem ingenii di Cartesio, una struttura del pensiero raziocinante a partire da tre dimensioni costitutive del conoscere quali l’intuizione, la deduzione e l’induzione ed attribuendo alla prima una sorta di primato non solo cronologico nel processo di conoscenza, ma qualitativo e logico. Se di fatto avessimo assunto il termine “ragione” nel suo significato più precipuo e determinato, ma anche limitato, dovremmo qui attribuirlo soltanto alla seconda modalità conoscitiva di cui parla Cartesio, ma nel momento in cui intendessimo rivolgere la nostra attenzione alla razionalità filosofica, il riferimento agli albori della modernità farebbe sì che riteniamo il termine comprensivo almeno delle prime due modalità attraverso cui si esprime il conoscere e quindi anche il sapere, secondo il padre del pensiero moderno, non tralasciando tuttavia neppure la terza modalità conoscitiva, quella dell’induzione, se non altro a motivo del fatto che la stessa Fides et ratio oltre che sul piano filosofico, segnala la crisi del rapporto armonico tra fede e ragione proprio a partire dalle forme di razionalità scientifica, che il mondo moderno ha prodotto e che prendono le mosse, anche se naturalmente non esauriscono in essa, tutto il loro potenziale e la loro formalità gnoseologica, dalla modalità induttiva:

Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e sullo stesso essere umano (ibid.).

Semplificando: entrambe le direzioni assunte dalla filosofia moderna, quella razionalistica di stampo cartesiano e quella empirista di carattere humiano, si costituiscono assumendo a proprio fondamento e strumento di conoscenza una ragione teoretica fiera della sua autonomia e delle proprie capacità di giungere a conoscere il tutto e ad afferrare il reale, non solo interpretandolo, ma di fatto dominandolo in una comprensione assoluta e pienamente trasparente, che darà occasione allo Hegel della Fenomenologia dello spirito di inneggiare ad un’ebrezza della ragione ormai paga del proprio potere e del proprio dominio sul reale, compresa l’inclusione del credere nel sapere che fin dalla enunciazione della formula del venerdì santo speculativo rientra nei compiti del sapere assoluto.

Il termine ragione fa riferimento alla capacità e all’attività argomentativa del conoscere. In questo senso la ragione è l’organo e l’attività che consente di effettuare delle connessioni fra i dati offerti al conoscere, costruendo una sorta di rete connettiva, come la ragnatela di baconiana memoria, fra gli oggetti della conoscenza. Facoltà fondamentale per ogni attività conoscitiva, presa in tal senso, la ragione non ne esaurisce evidentemente tutte le dimensioni. Dal punto di vista etimologico il termine evidentemente fa riferimento alla ratio latina, che rimanda al contesto giuridico, di cui è fortemente impregnata appunto la cultura romana. Sicché si può far rilevare come il termine abbia la stessa radice di ratus, ossia stabilito, fissato e ciò in base ad operazioni di “calcolo” e di “rapporto” (da cui il termine “ragioneria”). In tal senso il ragionare (come attività del ragioniere) costituirebbe la massima espressione di quel “pensiero calcolante”, tanto aborrito dalla filosofia heideggeriana. La contrapposizione tra “pensiero calcolante” e “pensiero meditante” veniva utilizzata da Martin Heidegger per indicare l’autenticità del sapere, che egli naturalmente assegna alla seconda forma di pensiero, mentre la prima designerebbe il sapere scientifico e tecnico dominante nella nostra epoca, contro il quale scaglia con forza i suoi strali, giungendo all’affermazione radicale e tagliente secondo cui “la scienza non pensa”. La scienza e la tecnica, in quanto assurgono a modelli di sapere, determinerebbero di fatto un atteggiamento di dominio e di prevaricazione sul mondo e sugli altri, ispirandosi al criterio della utilità, finirebbero con lo strumentalizzare ogni loro oggetto, piuttosto che lasciarsi condurre dall’Essere. Gli esiti di un simile atteggiamento non potranno che essere catastrofici, a meno che non giunga un dio a salvarci dall’abisso in cui ci sta conducendo il “pensiero calcolante”. A questo tipo di sapere, secondo Heidegger, appartiene anche la teologia cristiana, che ha a che fare non con l’Essere ma con l’ente supremo, il quale diviene oggetto su cui l’intelligenza credente esercita il proprio dominio. Il “pensiero meditante”, al contrario, rinuncia alla gestione dei propri oggetti assumendo un atteggiamento di gratitudine-riconoscenza, nella consapevolezza della propria necessaria inutilità. Dall’abbandono di ogni spirito di dominio nasce la contemplazione dell’Essere, che un autentico filosofare deve proporsi di perseguire:

A che cosa mi serve questo o quello? Che cosa ne dovrò fare? In che cosa mi sarà di aiuto nella comunità e nel mondo? Come lo dirò alla gente, alla gente d’oggi soprattutto? Chi abbia continuamente nel cuore e sulle labbra simili domande – chi non si lasci mai, o mai seriamente, prendere dai problemi teologici in quanto tali, ma voglia interessarsene solo per poter in seguito balzare, con l’aiuto di una qualsiasi soluzione, su una qualche sella, non sarà mai, sia nella preghiera come nello studio, un lavoratore teologico da prendersi sul serio, né in seguito saprà dire alla gente alcunché di giusto, e meno ancora il giusto [parola di Karl Barth].

Assumere la provocazione heideggeriana nella nostra resa dei conti con la modernità filosofica e scientifica, come fa Amendola, significa in primo luogo mostrare il carattere contemplativo del sapere (sia teologico che filosofico), così come ci viene proposto dai grandi maestri di tutti i tempi, la cui lezione, a differenza di Heidegger, noi non possiamo ignorare. In secondo luogo, pur ritenendo molto interessanti le considerazioni svolte a partire dalla contrapposizione tra “pensiero calcolante” e “pensiero meditante”, ci sembra che le due forme di sapere non debbano necessariamente essere intese in maniera esclusiva, bensì piuttosto comprensiva. Fermo restando il primato dell’orizzonte contemplativo, il sapere filosofico e teologico non esclude il momento della conoscenza scientifico-tecnica nei diversi ambiti in cui esso può essergli di aiuto. Tuttavia, l’assunzione di tale primato, secondo l’insegnamento dei grandi maestri, tende ad escludere l’adozione di definizioni della filosofia come “scienza della verità” e della teologia come “scienza della fede” o “scienza della salvezza”, anche se nell’intenzione degli autori che le adottano esse non intendono certo il termine “scienza” nel senso del “pensiero calcolante”. L’equivoco è comunque possibile e va evitato, per quel che dipende da noi.

Ma da queste pagine raccogliamo altresì la consapevolezza del fatto che siamo, se non ancora usciti definitivamente (forse non lo saremo mai), almeno in uscita esodale dalla modernità. Il credente, infatti, non può ignorare la presenza, nella cultura, sia accademica che diffusa, del nostro tempo, di una sorta di “politeismo” delle forme di razionalità o di polimorfismo della ragione, risultante dalla frammentazione del sapere. Piuttosto che ad una ragione univocamente rappresentantesi (e come tale onnicomprensiva e totalizzante), l’intellettuale (occidentale) contemporaneo si trova di fronte alla pluralità delle razionalità, supposta dai differenti ambiti del sapere: abbiamo così, come annota l’Autore e solo per fare qualche esempio, una razionalità scientifica, una razionalità tecnica, una razionalità matematica, una razionalità informatica, una razionalità filosofica, una razionalità teologica ecc. La possibilità di superare la frammentazione, attraverso un fecondo dialogo interdisciplinare, passa attraverso il reciproco riconoscimento delle diverse forme di razionalità e dalla loro interazione.

Nell’ambito della razionalità fisico-matematica, quella che il giovane Amendola frequenta per professione, penso che punti non marginali su cui far leva siano costituiti da un lato dall’emergenza del “principio d’indeterminazione” di Heisenberg e dall’altro dal riferimento ai teoremi gödeliani, la cui rilevanza filosofica è sempre più studiata ed approfondita, tanto che Anthony Hutton ebbe ad esclamare: «Di questo Gödel non se ne può più!». Non intendo avallare in nessun modo l’idea che da queste acquisizioni della fisica e della matematica contemporanee si debba necessariamente inferire l’esistenza di Dio o l’esercizio della libertà, piuttosto, si tratta di possibilità intrinseche alle stesse scienze cosiddette hard di ripensare la forma di razionalità che in esse si esprime e, perché no?, di allargarla.

L’ambito della razionalità biologica offre un esempio molto interessante nella riscoperta della diversità dei viventi e della sua ricaduta scientifica e sociale, che un genetista di indiscussa competenza, come Marcello Buiatti, ha definito “il benevolo disordine della vita”, dove diventa intrigante e particolarmente fecondo il discorso dedicato all’approfondimento della “diversità umana” in rapporto alle altre forme di vita conosciute, con la messa in campo di una peculiarità che un modo datato di studiare queste discipline aveva smarrito.

Nel contesto delle cosiddette scienze umane, mi sembrano particolarmente interessanti gli sviluppi in psicologia del costruttivismo postfreudiano. L’attenzione che, anche nella teologia nostrana, si presta alla lezione lacaniana forse costituisce più che un semplice spunto. Come anche in ambito sociologico credo richieda attenzione l’abbandono di un mero approccio quantitativo ai fenomeni studiati e l’ingresso della dimensione qualitativa attraverso, ad esempio, l’adozione delle cosiddette “storie di vita”, non solo a livello integrativo di tematiche, che, nella loro peculiarità, sfuggono alla pura empiria della statistica matematica.

Ma l’apporto che probabilmente desterà maggior attenzione nel lettore di questo libro, è quello che si può ricavare dal confronto con l’intelligenza artificiale (IA). Si tratta di un vero e proprio “mito” del nostro tempo “neo-moderno” (secondo la felice denominazione di Roberto Mordacci). E qui al mito non intendiamo dare un’accezione negativa, né dimenticare la sua valenza veritativa e, si pensi a miti classici e religiosi, educativa. Al momento, mi sembra che, piuttosto che all’intelligenza artificiale, bisognerebbe far ricorso alla memoria e alla ragione, in quanto i dispositivi finora prodotti sono potenti mezzi dotati di immense potenzialità di raccolta dati (memoria) e grande velocità di calcolo computazionale (da cui il loro nome). Mentre riflettiamo su questo argomento, l’intelligenza (intelletto vs ragione) e il pensiero, come le emozioni, non sembrano appartenere alla civiltà delle macchine. E la risposta positiva di Turing alla domanda se le macchine pensano, viene integrata con l’aggiunta “ma a modo loro”, e può essere declinata nel senso che ricordano e ragionano. E, sempre nel nostro oggi, sembra che le macchine pensino secondo la logica binaria, a meno che i computer quantistici non ci riservino sorprese, sarebbero per ciò stesso estranee a quella logica del paradosso che caratterizza l’esistenza umana, con la compresenza di luci e tenebre, bianco e nero, vero e falso, bene e male. Ecco il motivo per cui gli Adam e le Eve (generazione di robot) del romanzo di Ian McEvan si suicidano: non sopportano le zone grigie dell’umano.

L’aspetto che mi sembra da porre in rilievo, riflettendo sulla cultura al tempo dell’IA, è la frattura che si genera nel mondo delle macchine e di quel nuovo Leviatano, che sarebbe Internet, fra lo spazio e il tempo. L’attuale contesto socio-culturale e mediatico ci consegna un’immagine/idea del tempo, che, mentre sembra confliggere radicalmente con la visione proposta dalla teologia cristiana, al tempo stesso la interpella e la sfida. Si tratta di un cambio di paradigma “filosofico”, la cui parabola ci mostra come dall’enfasi sulla storicità (e di conseguenza la temporalità e la diacronia), si sia approdati all’assolutizzazione della sincronia. Sembrano pertanto alquanto, se non fin troppo, lontani i tempi in cui il filosofo poteva esclamare, Es gibt Sein, Es gibt Zeit (Heidegger). Infatti «Internet sembra offrire una connettività globale senza tempo: la home page (idealmente con una connessione di ventiquattr’ore al giorno) è sempre accesa, anche quando il suo proprietario dorme» (E. Burman).

Il concetto e diremmo il termine stesso di globalizzazione confermano la tesi interpretativa piuttosto diffusa, secondo cui il processo (o l’insieme dei processi) che così denominiamo producono una sorta di “esautorazione del tempo” a favore dello spazio, all’interno di quella dislocazione, di cui parla Anthony Giddens, come prima fonte di dinamismo della modernità. A parte le critiche rivolte alla sociologia di questo autore sia da Margaret S. Archer che da Niklas Luhman, questa teoria, esplicitata ulteriormente da Manuel Castells, interpreta il reticolato planetario adottando esclusivamente categorie spaziali: parla così di “realtà topologica”, “campo reticolare”, in cui si posizionano gli “spazi di flusso”, che costituiscono la struttura della rete. La network society, secondo questo autore, risulta caratterizzata da “una temporalità circolare di flussi interattivi in una realtà di natura spaziale”, che “dissolve la linearità ed irreversibilità del tempo in un timeless time [= tempo eterno] neutro, amorfo, senza storicità, e pertanto svaluta il tempo soggettivo”.

Un affondo filosofico, a partire da queste considerazioni socioculturali, mette in campo la categoria di “presente assoluto”, secondo le interessanti intuizioni di Agnes Heller, con la metafora dell’“abitare il tempo”, fenomenologicamente descritto a partire dalle esperienze di accelerazione e di simultaneità, in quella artificiale “formattazione del tempo”, che percepiamo come naturale nel momento in cui abitiamo la rete informatica o le reti televisive. E tale oblio del tempo finisce col riguardare sia il passato, sia il futuro. La frammentazione e la formattazione del tempo producono la percezione dell’equivalenza dei momenti che compongono il flusso temporale. In questa direzione C. Geertz ha elaborato la categoria di “tempo tassonomico”, a palinsesto, in cui anziché susseguirsi giorni vuoti e giorni pieni (dove la pienezza è data dal loro significato per il singolo e la comunità), registriamo soltanto la catena dei giorni vuoti, riempiti da ciò che immediatamente urge la coscienza degli individui (privatizzazione del tempo). La letteratura sull’argomento parla a questo proposito di “società de-tradizionalizzata”, di “de-tradizionalizzare la tradizione” e di “tradizione assediata”.

Tutto questo incide sulla cultura e sul pensiero credente, per cui bisognerà interrogarsi non tanto sull’apprendimento delle macchine quanto sull’apprendimento dalle macchine. Esse – come abbiamo avuto modo di riflettere in un importante convegno SEFIR (Scienza E Fede sull’Interpretazione del Reale), di cui Amendola è stato assiduo frequentatore, come delle varie edizioni della scuola di Perugia organizzata dalla stessa area di ricerca – “parlano di noi” e in un certo senso ci fanno da specchio e ci pongono di fronte ai nostri limiti mnemonici e razionali, ma anche alle nostre potenzialità di pensiero e di intelligenza. Istruttiva risulterà la lezione golemica del noto romanzo fantascientifico di S. Lem, Golem XIV. In questo senso le macchine educano, nel senso che tirano fuori ciò che siamo. L’approccio educativo, se vuol andare oltre l’assemblaggio delle informazioni e interpellare la persona mostrerà come la fondamentale caratteristica dell’umano rispetto al mondo della tecnica è l’unicità. La macchina è replicabile, perché si costruisce, la persona è unica perché si genera. Ulteriori riflessioni potranno riguardare la trasmissione della fede nel mondo dell’IA, mostrando, come abbiamo avuto modo di vedere altrove, che in fondo la religione è l’artificio della fede, la sua memoria e la sua ragione.

Il ricorso dell’Autore alla “ragione sensibile”, sintagma mutuato da Pierangelo Sequeri, implica di fatto un rovesciamento della prospettiva e l’assunzione di una responsabilità verso la civiltà delle macchine e l’IA, di cui forse ancora non siamo pienamente consapevoli. L’augurio è che la lettura di queste pagine susciti o alimenti tale consapevolezza ed imprima una nuova spinta alla nostra teologia fondamentale.

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